Per materia sola. A single matter
Un viaggio nel processo dell'opera di Roberto Ghezzi
di Francesca Di Giorgio
ăquae. Solamente ăquae. Un elemento solo, “vitale”, caratterizza una nuova esperienza espositiva all’interno della lunga ricerca artistica di Roberto Ghezzi (Cortona, 1978). Vent’anni di lavoro a stretto contatto con la Natura. Un legame ereditario, ricevuto in dote, da un ramo familiare, prima, voluto e ricercato, poi, con la stessa passione e costanza per la pratica artistica, dove arte e vita arrivano a coincidere all’interno di un cerchio magico.
Un rapporto tra uomo/artista e Natura che, si direbbe, di progressivo avvicinamento, a ben osservare l’evoluzione di una ricerca in cui si distinguono momenti differenti tra loro, che definiscono l’infinitamente complesso in rapporto all’infinitamente semplice e l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo.
Dopo un lungo percorso di pittura di paesaggio, infatti, l’artista ha deciso di battere sentieri meno conosciuti per intraprendere una nuova e profonda ricerca del “vero”. Quel vero che nella storia dell’arte occidentale spesso ha coinciso con il concetto di mimesi ma che nella ricerca di Roberto Ghezzi si declina nella triade: Verità-Conoscenza-Azione sempre “con”, “attraverso”, “nella”, natura.
Quello di Ghezzi, in fondo, si presenta proprio come un superamento della reale capacità mimetica della pittura agendo su una linea sottile e discreta in cui si mette in discussione e si ri-profila il ruolo stesso dell’artista, visto non più come demiurgo, come genio solitario e talvolta egotico ma come artefice di un processo “collettivo” di cui l’artista è parte attiva, determinante, certo, ma non l’unica e sola.
Ciò significa fare un passo indietro, che poi è un passo in avanti, rispetto all’idea di artista/protagonista. Significa restituire centralità alla natura attraverso un processo artistico spontaneo e guidato, allo stesso tempo.
Nelle opere di Ghezzi la natura si presenta, semplicemente. Non esiste medium perché la natura non si rappresenta, è capace di comunicare benissimo se stessa.
È da questa dichiarazione di autosufficienza, estremamente poetica, che nascono le Naturografie: scritture della natura, opere che vedono la luce nel momento in cui l’artista cede lo spazio bianco della tela all’agire naturale. Artista come architetto, generatore di un processo, in cui è lui a decidere sia le condizioni più favorevoli affinché la creazione abbia inizio, sia quelle in cui debba aver fine.
Con queste opere il divenire della natura è messo a contatto con la mutevolezza del materiale, del luogo e del tempo scelto dall’artista per la creazione.
Nell’ambito dell’arte contemporanea potremmo quindi dire di essere di fronte ad una forma purissima di site-specific, uno di quei termini, spesso svuotati di senso dalla critica contemporanea, per indicare un intervento che è pensato e si inserisce in un preciso luogo. Le opere di Ghezzi sono figlie dell’interazione tra tele “anfibie” (installazioni tra terra, acqua e aria) e ambiente naturale. L’artista racconta «In base al paesaggio che incontro scelgo diverse tipologie di tessuti, di supporti, modifico le formule dei reagenti (i preparati naturali con cui tratto le tele per innescare il processo) e le tempistiche». La natura per restituire se stessa ha i suoi tempi, sempre diversi…
Dalle prime installazioni più prossime ai luoghi conosciuti sin dall’infanzia, poi, gli Appennini, le Alpi, le lagune, i laghi, i mari e infine il mondo. Le tele di Roberto Ghezzi accolgono, ogni volta, una nuova sfida, si innestano in un ambiente diverso con immutata volontà di confronto e di nuovo dialogo. Dalle torbiere, alle foreste, alle cascate, ai deserti e ai ghiacciai in una ricerca trasversale che ha abbracciato, via via, ambiti più estesi e ambiziosi, dall’arte alla scienza, alla sostenibilità ambientale, fino alla didattica e alla divulgazione.
Naturografie ăquae è quindi una tappa evolutiva. Un episodio fondamentale che apre un varco verso le grandi potenzialità che dall’interno di un’opera d’arte si dischiudono agli occhi degli scienziati e, soprattutto a quelli degli spettatori che, chiamati a vedere qualcosa che pensano di conoscere si accorgono di non conoscerlo affatto: il mondo “celato” che abita dentro la tela. Una “realtà altra” irraggiungibile ad occhio nudo, che solo un microscopio può rendere visibile. Se non è vitale per noi conoscere, uno ad uno, gli organismi che vivono dentro le tele, ciò che importa è sapere della loro esistenza, è percepirne la presenza, pensare alla possibilità, solo apparentemente remota, di una realtà diversa.
E se un’opera potesse essere una porta spaziotemporale, quell’artificio della narrativa fantastico-avventurosa che permette lo spostamento immediato dei personaggi fra due siti fra loro distanti nello spazio, nel tempo o in altre realtà? Opera d’arte, allora, come un “portale verso un altro mondo”, un varco, un passaggio per un’altra dimensione.
Un multiverso percettivo, verrebbe da dire, creato da uno scarto visivo tra ciò che percepiamo con i sensi e ciò che se aumentiamo lo “zoom” vediamo in una dimensione altra, come in un paesaggio astratto. Una proiezione dello spettatore in un micromondo dove si scardinano i parametri conosciuti e dove attraverso l’uso di un mezzo artificiale, quale è il microscopio, è possibile accedere ad una bellezza inedita e solitamente inaccessibile.
Complessa e piena di mistero è la realtà che ci circonda. Semplice e diretta è l’arte che la contiene, incredibilmente, tutta senza che ce ne rendiamo conto.
L’arte, quella vera, “contiene” senza sforzo alcuno, senza costrizioni e ciò è possibile solo assecondando un flusso di cui Roberto Ghezzi si rende complice e alleato cambiando continuamente la sua posizione nello spazio – numerose le residenze artistiche in Italia, e in luoghi remoti del pianeta come l’Alaska, l’Islanda, il Sudafrica, la Norvegia, la Tunisia, la Patagonia e la Groenlandia – permettendo ai luoghi percorsi e vissuti – parchi, riserve naturali… – di lasciare una traccia di sé, per una volta, al posto di quella dell’uomo. A queste tracce, per natura così dissimili tra loro, Ghezzi, da tempo, ha dato il nome comune di Naturografie.
La natura si presenta così per ciò che è, senza sovrastrutture come la protagonista di un racconto autobiografico, di questi tempi, sempre più raro perché, nel bene o nel male, virato verso toni antropocentrici. Il testo di recente pubblicazione, Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano, ne è un chiaro esempio: l’autrice Cal Flyn traccia la sua personale topografia dei luoghi più devastati del pianeta ricordando che dove l’umanità scompare, la natura prospera perché «la vita riprende a poco a poco il suo dominio sulle cose, mostrandoci da un lato la transitorietà dell’impatto dell’uomo sulla Terra e dall’altro la speranza di una natura che torni in possesso di ciò che le è stato tolto».
La topografia di Roberto Ghezzi, dei luoghi dove installa le sue tele, sempre al confine tra aria e terra o aria e acqua, conduce a percorsi poco battuti, spesso impervi, difficilmente raggiungibili o, come nel caso di Naturografie ăquae al largo delle acque della Laguna veneta.
Il progetto pensato per Venezia, Naturografie ăquae, nasce dalla volontà di indagare la Laguna in tutti i suoi aspetti, e intervenire sia nelle aree maggiormente urbanizzate come l’Arsenale, sia in aree più naturali come le Oasi WWF Valle Averto o in aree rinaturalizzate come le barene a sud di Venezia. Sempre secondo il concept seguito dalla ricerca di Ghezzi, anche per il progetto Naturografie ăquae sono stati coinvolti diversi partner, come WWF, Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale di Venezia e soprattutto CNR ISMAR e IOM.
L’artista ha consegnato ai ricercatori del CNR ISMAR e IOM dei campioni delle tele al momento del prelievo affinché questi potessero studiarne le caratteristiche naturalistiche e in particolare come l’ecosistema dei veri ambienti reagisce con i vari tipi di tessuto.
Le naturografie possono, infatti, anche essere percepite dal punto di vista del ricercatore come matrici di raccolta di dati e potenziali fonti di informazioni sulle caratteristiche degli ambienti che hanno contribuito a crearle, e sulle tempistiche di degradazione dei tessuti. IOM ha anche effettuato macro fotografie al microscopio elettronico delle tele prelevate e oggetto di installazione nei diversi ambienti naturali, ambienti in cui le tele sono rimaste in loco dai due ai sei mesi, durante il 2021 e il 2022.
Ci allontaniamo, così, dalla consueta immagine dell’artista chiuso nel suo studio, ripiegato su stesso per visualizzarne un’altra, altrettanto vera, quella di chi attraversa la materia stessa della sua arte, si fonde e confonde con essa senza mai sovrapporsi.
L’avvicinarsi al luogo di studio corrisponde parallelamente a prenderne le distanze. Un passo indietro per farne uno in avanti. Roberto Ghezzi diventa attivatore di processi, mediatore dell’inaspettato.
Una pratica artistica ipersensibile, quella di Ghezzi, che elabora dati fisici e sensoriali con una “naturalezza” disarmante. Il rapporto confidenziale che l’artista intrattiene con gli ambienti che conosce e attraversa riflette il grado di profondità della sua ricerca sempre in tensione e in ascolto di una doppia dimensione: interna ed esterna. Con un approccio in progress che lo avvicina sempre di più ad ambiti scientifici, le “opere vive” di Ghezzi registrano nuovi sguardi e prospettive infinite quante quelle presenti in natura.
Un’arte processuale a tutti gli effetti dove la sola esposizione del risultato finale, seppur coadiuvata, in alcune occasioni, da progetti grafici, non sempre riesce a trasmettere il percorso che accompagna la creazione delle opere che prevedono sempre un’analisi accurata dei luoghi, «A pensarci bene il momento migliore (concettualmente ed esteticamente) di una Naturografia© è sempre quello immediatamente precedente il prelievo, quando ancora è tutto un brulicare più o meno macroscopico… Se dovessi correttamente indicare la tecnica con cui sono realizzate le mie opere potrei anche dire “materia organica su tela”, in quanto i preparati che utilizzo per catalizzare la vita sul tessuto innescano sempre – a contatto con il “luogo” – una piccola scintilla dalla quale poi segue il resto», dichiara l’artista.
In quel “resto” interviene anche la dimensione temporale, una componente primaria sia sotto l’aspetto dell’elaborazione dell’opera, che richiede spesso tempi lunghi, sia dal punto di vista del suo “destino” che, data la deperibilità, non pone come obiettivo primario la durata nel tempo.
Anche le ăquae della Laguna, protagoniste al Fondaco dei Tedeschi hanno attraversato le fasi di un processo e in mostra è come se si guardassero allo specchio ma l’immagine restituisce una realtà che sta sotto alla superficie delle cose. Siamo lontani anni luce dalla rappresentazione: l’estetica cede il passo al concetto.
In questa mostra curata da START Cultura e dalla galleria EContemporary, in collaborazione con CNR ISMAR, CNR IOM, WWF Italia, Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale e Fondaco dei Tedeschi – Ghezzi porta per la prima volta in mostra un dialogo inedito tra una selezione di sue grandi opere su tela e immagini al microscopio delle tele stesse.
Le grandi tele che vediamo scendere dal soffitto, come arazzi di un tempo lontano, sono fatte della stessa sostanza della Laguna, di come si presenta a noi, oggi. All’apparenza pregne di materia eppur leggere e delicatissime, sono esposte nel loro equilibrio instabile.
Altre tele, invece, di dimensioni più piccole ma dalla stessa “forza” sottolineano i dettagli dell’essenza delle “ăquae” conosciute attraverso il progetto e nello specifico di quelle della zona Nord del mare Adriatico connettendosi così alle Naturografie© degli inizi della ricerca: in cui la Natura ha espresso l’essenza della parte orientale delle sue coste.
Il mondo dentro le tele di Roberto Ghezzi si muove anche stando fermo, crediamo di conoscerlo ma in realtà non lo abbiamo mai visto, un “mondo nuovo” che arte e scienza assieme ci stanno rivelando.