CHOOSE

Uno spazio da attraversare

Il progetto del collettivo DMAV in partnership con Start Cultura per il museo a cielo aperto del parco della Villa di Toppo – Florio utilizza i linguaggi e le suggestioni dell’arte pubblica per lavorare sulla dimensione e l’esperienza della siccità.

L’installazione di arte pubblica dal titolo CHOØSE fai la tua mossa è realizzata in forma permanente a partire dal delicato poggio ai piedi della prima rampa di scale che dalla villa porta al parco per concludersi nell’area in cui termina la scalinata. Visivamente ci si trova davanti a un ideale triangolo che inscrive l’intervento artistico site specific. Al vertice di questo triangolo una grande “O” trafitta da una freccia mobile, mentre ai due angoli opposti, alla fine dei gradini, sono dipinte le parole “AVERE” ed “ESSERE” che creano un immaginario crocevia. Un bivio naturale che ci si presenta davanti agli occhi mentre ci si immerge nell’esperienza del parco.

Il poggio e queste due aree delimitate e contrapposte accolgono un’opera di forte impatto cromatico ed emozionale, un impulso di vita ed energia, uno spazio di riflessione all’interno della cornice verde del parco. Le due parole “avere” ed “essere” sono poste all’interno dei due rettangoli colorati con le tinte dell’acqua e della terra arsa. L’ambiente naturale e l’atmosfera del giardino sono molto suggestivi e traggono ulteriore linfa vitale dal contrasto concettuale dell’installazione.

Il forte dislivello tra villa e parco e la centralità della scalinata sono assolutamente congeniali alla vista dall’alto dell’intervento artistico e ne enfatizzano l’impatto estetico.

Davanti al bivio: CHOØSE fai la tua mossa

Quale significato può assumere questa sorta di dilemma ai piedi della scalinata? La biforcazione vuole sottoporre al visitatore, in termini visivi ed esperienziali, la grande domanda che regola il rapporto tra esseri umani e ambiente: Avere o Essere? Fondamentale sarà la mossa che ciascuno deciderà di compiere e che contribuirà a indirizzarci, come collettività, in una direzione o nell’altra. Scegliere di perseguire lo sfruttamento, lo spreco e il consumo egoistico delle risorse del pianeta, perciò anche dell’acqua, o scegliere di fare parte, in modo integrato e altruistico, di un contesto più ampio che travalica la singolarità dell’individuo?

L’opera vuole insistere, riecheggiando il celebre testo di Erich Fromm, sul grande tema dell’equilibrio instabile tra uomo e ambiente, senza sciogliere l’ambiguità di fondo che avvolge queste due dimensioni nello scenario contemporaneo. Se Fromm indicava già nel 1976 la necessità di un superamento della posizione di sfruttamento delle risorse e l’abbandono di un modello basato sull’accumulo dei beni che è parte centrale dei presupposti dei modelli capitalistici, oggi non si può certo dire che questa dimensione sia stata realmente integrata nello scenario globale come autentica prospettiva di sostenibilità. Continuiamo a interrogarci, ad oscillare, forse a non riuscire a scegliere tra avere o essere, anche nelle piccole cose, nelle questioni di ogni giorno. Eppure questa scelta si pone di continuo nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi. Quest’opera insiste sulla centralità di un’esperienza caratterizzata da una radicale incertezza, su quella grande “O” trafitta dal dubbio che ci invita ad assumere la responsabilità di una scelta che non può essere scontata. Proprio dalla nostra capacità di ripensare le mosse da compiere, presenti e future, su cui si reggerà la sfida della sostenibilità e del superamento di modelli non equi di distribuzione della ricchezza e di utilizzo delle risorse comuni del pianeta nasce il titolo CHOØSE fai la tua mossa. La sensazione di muoverci in un tempo che, con Pasolini, potremmo definire postumo, in cui qualcuno ha già deciso per noi e che ci viene consegnato come un residuo di autonomia con cui convivere alla bell’e meglio con conseguenze già decise, fa sì che siamo per molto versi immersi in uno scenario “ultimo”. Ma d’altra parte se, in modo più ottimistico, rimane ancora la possibilità di incidere sul futuro con le nostre decisioni, questa possibilità sembra davvero essere quella di un’umanità che non può più rimandare il momento dell’assunzione di responsabilità, che deve fare la sua mossa perché non ha più seconde possibilità: siamo (tutti) gli ultimi tra noi o gli ultimi che possono ancora dire noi. In ogni caso siamo, che ci piaccia o no, in bilico, sospesi su un tempo incerto in cui, le nostre mosse plasmeranno il futuro in modo irrevocabile.

L’opera e il mondo

I am tired, I am weary
I could sleep for a thousand years
A thousand dreams that would awake me
Different colors made of tears
Velvet Underground, Venus in furs

Pensiamo alla “O”. Tra avere ed essere si apre un’alternativa. Già Erich Fromm, nel 1976, parlava di un “aut aut”: i due corni di un dilemma, due strade da prendere. La “O” è il cerchio della decisione tra avere ed essere. L’installazione ci invita a decidere, a prendere posizione, ad agire, anche solo all’interno dello spazio simbolico aperto dall’opera. Quindi tra i due verbi che si disegnano di fronte a noi come strade da prendere, quello che rimane aperto, in stato di attivazione costante, è uno spazio vuoto, che ognuno di noi può riempire e riattivare con il suo passo e con il suo corpo.

Nella scelta, nella decisione tra le due alternative si frappone il corpo dello spettatore. Primo elemento: lo spettatore non è più uno spettatore, perché non ha più uno spettacolo di fronte a sé. Lunga storia, quella del mondo che si offre a un osservatore disincarnato, come se fosse un quadro appeso al muro, un paesaggio da contemplare. Un mondo cartolina offerto a un turista più o meno interessato.

L’installazione ci invita piuttosto ad abbandonare la posizione contemplativa, perché il mondo non è qualcosa che se ne sta passivamente davanti ai nostri occhi. Il mondo agisce, il mondo è, il mondo ha. Se a lungo abbiamo considerato il mondo fuori di noi come un semplice riflesso dei nostri stati interni, ci accorgiamo ora che non ha aspettato il nostro sguardo che, come il bacio del principe azzurro, avrebbe la capacità di risvegliare e rianimare un natura addormentata. Il mondo veglia, la natura è insonne. E se dorme, i suoi sonni durano ere, e non abbiamo occhi per comprendere quello che sogna.

Gaia, potremmo dire con Bruno Latour, è un territorio percorso da “agency”, da un’intrinseca e diffusa capacità di agire. Se c’è una cosa di cui possiamo stare sicuri, è che siamo immersi in un mondo che agisce. Il traffico delle nuvole, il mulinello di sabbia sulla spiaggia, una pianta che si fa strada nel terreno secco, un insetto che apre le ali, un fiume che scorre placido o che rompe gli argini. Ne riconosciamo la bellezza, la potenza, il pericolo, il sollievo. Ma sarebbe ancora un modo per rispecchiarci. Il mondo fa delle cose, con tutto quello che ha a disposizione. Il mondo è e il mondo ha. Decide continuamente quale strada prendere nella biforcazione tra avere ed essere. Il mondo spalanca le “O”, le moltiplica, le percorre, ramificandosi in innumerevoli alternative. Scende simultaneamente dai due lati delle scale. Il mondo sceglie sempre cosa vuole essere e cosa vuole avere. La metamorfosi, la legge del variare delle forme, ci mostra come le alternative hanno vita breve se non si traducono in una spinta alla mutazione. Nell’installazione la discesa lungo la scala, che ci porta verso una delle due alternative, è un modo per scendere nel mondo, per ritrovare, attraverso la decisione, il senso di una “agency”, una capacità di agire che sembriamo avere smarrito, proprio nel momento in cui il mondo ci offre, lussureggiante, i suoi turbini vitali. La scelta tra avere e essere ci porta a interrogarci su quale umanità vogliamo essere: in contemplazione del mondo che cambia o immersi nelle contraddizioni di un flusso che non ci aspetta per agire. 

Giocando sui livelli di straniamento e performance lo spettatore diventa in assoluto “osservatore partecipante” nel processo. Si trova davanti a un perfetto “triangolo drammatico” che lo pone di fronte alla necessità di operare una scelta tra il sé e il noi, ad alterare ancora una volta l’equilibrio tra avere ed essere, stimolato dalla freccia del dubbio. Scendendo la scalinata si trova a un bivio e lì viene invitato a dichiarare qualcosa di sé: Una cosa che ho / Una cosa che sono, riflessioni necessarie per intraprendere il cammino della consapevolezza ambientale.

 

Social statement e consapevolezza ambientale

L’opera vuole porsi come elemento pop inserito nello spazio naturale, ma anche come rappresentazione di un messaggio provocatorio in linea con la ricerca che caratterizza le attività del collettivo DMAV degli ultimi anni in termini di social art e studi sulle comunità. La stessa scelta dei colori, da un lato evoca la vitalità dei contrasti cromatici, attraendo lo sguardo del fruitore, ma al contempo genera una potenziale ambiguità nell’alternare i colori dell’acqua e della terra, dell’idratazione e della disidratazione.

I social statement espressi a partire dall’installazione comprendono diverse dimensioni: la responsabilità sociale di ogni scelta, individuale e collettiva, il rapporto tra acqua e uguaglianza, il senso di urgenza che oggi esprimono le ricerche sulle questioni di sostenibilità ambientale, i messaggi che provengono dalla natura.

un progetto di

ideazione artistica

realizzato con il sostegno di